27 febbraio 2017

"Per dieci minuti" di Chiara Gamberale


È successo di nuovo, ecco un altro libro talmente bello e significativo da non poter essere recensito. Lo scopo di questo blog si sta vanificando... anzi no! (Nella giornata post Oscar non potevo esimermi dal fare questa battutina ehehehe). "Anzi no" è proprio vero, perché mi piace questa piega che io e il blog stiamo naturalmente prendendo, che vede le citazioni dei libri come uno strumento indispensabile per recensirli.

D'altra parte è figlia di due situazioni contingenti: la prima è che si stanno moltiplicando i libri leggeri ma significativi sui miei scaffali, libri di cui solo adesso inizio a fidarmi. Non per denigrare quelli che ho sempre amato e che anzi continuano a ricoprire la parte più grande dei miei interessi, ma più per far capire che in questi libri ultimamente sto trovando le rassicurazioni, il balsamo di cui una certa piega intimistica contingente mi rende bisognosa.

La seconda è che questi libri si prestano a meravigliose letture cellulare alla mano, quell'attività di second screen che ormai facciamo davanti alla TV (dico sempre che guardare #EPCC senza twittare è un delitto) e che in questo caso si riesce a fare anche in versione analogica. È assolutamente im-pos-si-bi-le non fare foto a più o meno una pagina ogni due, il libro è talmente pregno di frasi che sono macigni nell'animo - anche macigni positivi non fraintendete - capaci di tracciare solchi così intensi che non si possono non immortalare.

E quindi, forte di queste due consapevolezze, per recensire questo libro in realtà ho deciso di fare un gioco, un esperimento letterario: provare a riscrivere il libro stesso congiungendo tutte le citazioni che mi hanno toccata di più. 
Una storia nella storia, creata dalla concatenazione dei passaggi migliori, senza soluzione di continuità.
Si capirà la trama? Ne verrà fuori qualcosa di completamente inedito? 
Scopriamolo insieme!

Mio padre, mia madre, mio fratello e gli amici, che mentre tutto mi franava attorno e dentro restavano fermi al loro posto, nei primi tempi si erano dati il turno per dormire con me, mi avevano trascinata al cinema, al parco, al karaoke, allo stadio, in vacanza, non si sottraevano alle telefonate inutilmente lunghe senza "tu" (come stai? cosa pensi? che fai? ti permetti forse di esistere, nel frattempo?) e piene solo di "io" (non esisto più, sto male, voglio morire, e ora che faccio?) con cui li torturavo. 
Però giustamente, chiuso il telefono, avevano la loro vita a cui tornare.

L'unica a non avercela più, una vita, ero io.
Al suo posto una massa informe, sfilacciata, ferita, che come unico perno su cui girare aveva lo smarrimento.

Passato il momento del dolore insopportabile, poi, non c'era più neanche quello a farmi un po' di compagnia. 
Andavo a letto e l'unico pensiero prima di addormentarmi era la speranza di non risvegliarmi. Tanto il grande amore che dovevo avere l'avevo avuto, i romanzi migliori che dovevo scrivere li avevo scritti, di certo non ne avrei scritti altri in cui mi sarei potuta così profondamente esprimere, perché non avrei vissuto nient'altro che mi avrebbe potuto così profondamente toccare.

Siamo cresciuti insieme: così pensavano tutti, così pensavamo noi. 
Ma la verità è che non si cresce insieme perché capita o per magia. Bisogna stare, anzi, molto attenti. E se uno dei due cresce anche solo di mezza consapevolezza più in fretta dell'altro, ma l'altro anziché rincorrerlo ci rimane male e corre da un'altra parte, corre a New York, è un disastro ritrovarsi.

Chissà perché certi abbandoni sono così netti e certe riconquiste così vaghe.

Io cercavo animali strani, saline, foreste pluviali, deserti: e lo prendevo per mano.
Lui cercava musei, cattedrali, capolavori: e mi prendeva per mano. 
Se la nostra, come ogni giorno minaccia di fare, si rivelerà una fine e non solo una crisi, chi lo porterà per i boschi? Chi mi porterà per i musei? Chi si occuperà di tutte quelle parti di noi che diciotto anni fa è stato l'altro a inventare, che per diciotto anni è stato l'altro a tenere in vita?
Me lo domando tutti i giorni.

E improvvisamente capisco, so.
Che non sono i viaggi per il mondo, non sono i deserti immensi, le cattedrali, gli eserciti di terracotta, i panda, i canyon con Mio Marito che mi mancano: no. Non sono "i fatti salienti, le contraddizioni, le opere d'arte". Ma è quella cosa lì che mi manca.
La nostra vita sempre uguale. 
Bellissima.
Implacabile.

"Sto provando a farlo, sa, il gioco dei dieci minuti"
"E?" La T. non sembra turbata dal mio aver preso così sul serio quella che magari voleva essere solo una provocazione.
"E boh, appunto. Fondamentalmente, rispetto agli ultimi mesi, mi ritrovo con molto meno tempo per me stessa".
"In che senso?"
"Trovare una cosa nuova al giorno da fare non è facile. E mentre mi sforzo, va da sé: ho meno tempo per realizzare davvero come sto, tanto che a tratti sento come una piccola vertigine."
"È un bene?"
"Non saprei. A volte, l'impotenza di fronte a tutto quello che mi è successo mi manca. Mi manca svenirci dentro, all'impotenza. Il contatto con la mia parte più autentica a cui mi porta quello svenimento. "
"Non è detto che si debba svenire di dolore, per entrare in contatto con se stessi. O comunque non è detto che, una volta svenuti, non ci si possa risvegliare."

Io, al solito, mi sveglio comunque troppo presto, addosso l'impossibilità di alzarmi, aprire le tende e cominciare un'altra giornata, l'ennesima con cui faccio a braccio di ferro da quasi un anno.

Squilla il cellulare.
È lui. È da tanto che non ci sentiamo. Due giorni e mezzo, per essere precisi. Tantissimo che non ci vediamo: tredici giorni. Tanto, tantissimo tempo per chi aveva deciso di passare insieme tutto quanto, quello che c'era. Il tempo. Per chi, insieme, tutto quanto lo passava.

Gli lascio la mano.
Dice non ha senso lasciarmi la mano, se me l'hai presa. 
Gliela riprendo.
Lui la sfila subito via.
Dice tremenda, l'intimità. Tremenda, no?
Ripete: no?
Dice evidentemente io ho dei problemi, con questa cosa tremenda, ma non è che sotto sotto ce li abbiamo tutti? 
Dice perché secondo me sì, secondo me quei problemi ce li abbiamo tutti.
Allora, se provassimo a risolvere i nostri rinunciandoci, all'intimità?

Cosa?
Cosa è successo?
È successo che Mio Marito ha perso, dentro di sé, la strada di casa : e avrebbe bisogno di qualcuno che, come Pollicino, lasciasse un sassolino dopo l'altro, per indicargliela. Avrebbe bisogno di me. Però, dopo lo shock dell'abbandono, anch'io, dentro di me, ho perso quella strada. Anch'io avrei bisogno di Pollicino. Avrei bisogno di lui.

Vorrei prenderla in braccio, farla addormentare, addormentarmi con lei.
Vorrei assicurarle che non c'è verso: dentro momenti come questo bisogna cadere con le braccia, le gambe, il cuore, i polmoni. Tutto.
Bisogna andare in fondo, bisogna marcire.
Vorrei prometterle che non lo sa: ma arriverà il giorno in cui scoprirà di essere sopravvissuta. 
E vorrei anticiparle che non sarà una bella scoperta.

"La paura. La paura del margine di movimenti che ci rimane quando troviamo la felicità. A quel punto c'è solo da stare bene, no? e lui magari non è capace."
"Si spieghi meglio."
"Insomma: è stato proprio lui che mi ha aiutata a prendere fiducia in me stessa, che, più o meno consapevolmente, ha comunque domato le mie insicurezza, mi ha spinta a mandare a un editore il mio primo romanzo... E adesso non sopporterebbe la persona che , proprio grazie a lui, sono diventata? È un paradosso."
"Non è successo lo stesso, a lei, Chiara?"
"Io lo amo."
"Si domandi però se anche lei non ha fatto di tutto perché suo marito diventasse una persona che, da un certo punto in poi, ha cominciato a rifiutare. Un adulto, in definitiva. Amato, certo. Amatissimo. Ma che, in quanto adulto, le è sfuggito di mano. Fuori da Egoland è complicato riconoscere chi abitava nel nostro palazzo di un colore solo."
"Vero. Ma adesso vorrei che quei due adulti, in nome del loro Primario, come lo chiama lei, facessero amicizia. E che, crescendo o non crescendo, comunque invecchiassero insieme."
"Purtroppo e per fortuna, però, bisogna essere in due a voler essere in due, Chiara."

Evidentemente i posti, proprio come le persone, si accendono e rivelano di essere al mondo non solo perché c'è spazio, ma perché hanno un senso, solo quando siamo disponibili a capirlo. Quando abbiamo bisogno di loro. 

Mi incammino di nuovo verso casa.
Penso alle cene che Mio Marito improvvisava. Alle verdure grigliate di mia madre. A tutte le cose che gli altri fanno al posto nostro, per noi: dobbiamo essergliene grati? Ma certo. Anche se quelle stesse persone, mentre ci sollevano da un'incombenza, ci tolgono la possibilità di un'esperienza.
Colpa loro? A volte. Colpa nostra? Sempre.

Scegli: o dentro o fuori. Ma se stai sulla porta mi blocchi il traffico. 

È davvero perverso l'amore. 
Quando c'è, parli con una sola persona di tutte le altre.
Quando entra in crisi, parli con tutte le altre di una sola persona. 
L'unica con cui, a parlare, non riesci più.
E giorno dopo giorno ecco che non è più davvero una persona, quella persona: a forza di parlare di lei anziché viverla, diventa un puntino. Un ologramma. 
Qualcosa di indistinto, di ingannevole, di fatuo.

"Bisogna pur viverla, la vita," ha detto ieri. "Bisogna prendersi tutto quello che viene di buono, no? E se io non riesco ad amare un solo uomo per volta , che devo fare?, ammazzarmi?" 
Non ho idea di che cosa significhi.

Penso a come un distacco non segni per forza la fine di un'esperienza.
Anzi: può darle il permesso di durare per sempre.
E penso a quello che ho vissuto, a quello che vivrò, a quello che sto vivendo adesso. 
Perché nelle infinite semplificazioni con cui crediamo di metterci in salvo e dentro cui invece ci perdiamo, c'è una cosa, una soltanto, che non può venirci dietro, che non possiamo ingannare.
Questa cosa è il tempo.
Che è qualcosa di pochissimo, se siamo felici. 
Che è qualcosa di tantissimo, se siamo disperati. 
Comunque sta lì.
Con una lunga, estenuante, miracolosa serie di dieci minuti a disposizione.
Abbiamo l'occasione di farci quello che ci pare, con la maggior parte di quei dieci minuti. 
Ma ci sono momenti in cui non riusciamo proprio a coglierla, l'occasione.
Ci sono momenti in cui, anzi, ci pare una disdetta.

Per quanto riguarda me, ogni tanto sono molto serena, ogni tanto molto triste.
Non ho ancora un nuovo amore, purtroppo.
Ma ripenso spesso all'esperimento di un anno fa.
E allora mi dico che, se nel mondo ci sono persone che suonano il violino, cambiano pannolini, girano video porno amatoriali, insegnano hip-hop, seminano e leggono Harry Potter, fra sette miliari ce ne sarà almeno una che stava aspettando proprio me, nei dieci minuti in cui io la incontrerò.


The LR Advice: un esperimento che sembrava filare liscio fino a metà, in modo quasi mistico, e poi è diventato confuso e frammentato e anche io ne ho perso le redini. Si può davvero scrivere una storia nella storia o è pura illusione? E se ci si potesse semplicemente riconoscere in una storia, intera o nei suoi pezzi? 
E se fosse semplicemente questo il segreto più grande di libri imperdibili come questo?


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